Una rilettura psicologica del caso Tortora
Giorgio Bocca nel 2010 definì il caso Tortora come “il più grande esempio di macelleria giudiziaria all’ingrosso effettuato dal nostro paese”. L’analisi del suddetto assume un ulteriore valore se si considera il costo che gli errori giudiziari hanno per l’erario del nostro Paese.
In Italia, solo per l’anno 2018 sono stati versati 33 milioni di euro per 895 casi di ingiusta detenzione. Si intende qui fare riferimento a coloro che subiscono una misura cautelare intramuraria o domiciliare per andare poi incontro ad una assoluzione. Per gli errori giudiziari sono stati versati, invece, circa 48 milioni di euro a fronte di 913 innocenti ingiustamente condannati. Si consideri errore giudiziario il caso in cui dal 1992 al 2017, a causa di condanne errate sono stati erogati quasi 700 milioni di euro; se si considerano anche gli errori giudiziari la somma ammonta a 768 milioni per un totale di 26 mila persone ingiustamente condannate (Gulotta, 2018).
Enzo Tortora è stato un giornalista, un conduttore (radiofonico e televisivo) e un politico. La carriera di Tortora viene bruscamente interrotta il 17 giugno 1983, quando viene arrestato con l’accusa di “associazione per delinquere di stampo camorristico”; viene accusato di essere un membro della Nuova Camorra Organizzata e di essere dedito allo spaccio di stupefacenti. Le accuse furono avanzate dalla Procura di Napoli, dai pubblici ministeri Di Pietro e Di Persia in seguito alle dichiarazioni di pregiudicati, assassini e camorristi: se ne contarono più di undici.
Su alcuni di questi personaggi appare opportuno spendere poche parole solo per identificare possibili “storture del giudicare”. Giovanni Pandico, uno dei primi a fare il nome di Tortora è per gli inquirenti “un vero cervello elettronico, una banca dati precisa, senza tentennamenti. Durante gli interrogatori ha citato alla perfezione luoghi, dati, personaggi senza mai sbagliare ”. È probabile che lui diventa nella mente dei giudici una figura rappresentativa, un prototipo del “pentito”; ogni sua parola diventa fonte di preziosa informazione. A conferma di ciò ecco cosa dichiareranno i giudici nelle motivazioni del processo di primo grado “deve darsi atto al Pandico, al di là di qualsiasi valutazione critica sulla reale entità del suo contributo, di aver dimostrato una dedizione senza pari alla causa della giustizia, sposata con impeto e senza vie di mezzo”.
L’euristica della rappresentatività, nei fatti congela l’idea che si ha di una persona addebitandole caratteristiche che potrebbe non possedere.
Altri magistrati, quelli del così detto terzo troncone dell’inchiesta, probabilmente meno invischiati dall’euristica della rappresentatività su Pandico diranno “(…) non è stato mai affiliato alla Nco, Pandico ha dato corpo a sue personali convinzioni o a suoi personali risentimenti, che nel corso di questo procedimento non hanno risparmiato nessuna delle persone che hanno avuto un qualche rapporto con lui”. Ed è lo stesso Giovanni Pandico che ha ucciso due impiegati comunali perché tardavano a dargli un certificato, ci ha provato senza successo anche con padre, madre e fidanzata, e che per i medici è “schizoide e paranoico”. Ritornando ai fatti: l’accusa prende corpo, di fatto, unicamente da un’agendina trovata nell’abitazione di un camorrista con su scritto a penna un nome che appare essere, all’inizio, quello di “Tortora”, con a fianco un numero di telefono; nome che, a una perizia calligrafica, risulterà non essere il suo, bensì quello di tale “Tortona”.
Nemmeno il recapito telefonico risulterà appartenere al presentatore. Dal nostro vertice di osservazione la narrazione, probabilmente nella mente della procura inizia proprio con una fascinazione che la presenza di quel nome porta con sé: non a caso tutta l’operazione porta il nome Portobello, il nome della trasmissione televisiva. Una ponderosa operazione più di 850 mandati di cattura e 4000 arresti. All’epoca dei fatti il conduttore televisivo veniva seguito nella sua trasmissione da una media di 18.900.000 spettatori.
A partire da quello che potrebbe essere un banale errore di lettura di una grafia incerta, si innescano tutta una serie di dichiarazioni di pregiudicati che vanno a corroborare quella che Cecchin (1997) avrebbe definito “un’idea perfetta”.
Sull’importanza delle prime informazioni e sul loro peso si potrebbe far riferimento all’euristica dell’ancoraggio e all’effetto primacy. Le informazioni successive non si vanno mai a sommare algebricamente a quelle precedenti, secondo un principio commutativo; ma rimangono subordinate alle prime.
Il funzionamento della mente inquirente, alla ricerca di coerenze nei fatti selezionerà solo le informazioni che corroborano l’ipotesi iniziale. Non sono sufficienti le dichiarazioni del proprietario dell’agendina che affermerà che il nome non è Tortora ma Tortona con tanto di numero telefonico associato; non saranno sufficienti le vistose incoerenze di luoghi e di tempi nei racconti dei pentiti.
Fissata l’idea che il noto presentatore fosse un camorrista questa diventa, probabilmente, l’immagine maggiormente disponibile (euristica della disponibilità) e quella alla quale più facilmente si farà riferimento tanto nella costruzione della narrazione degli inquirenti che dei pentiti.
A complicare quello che può essere definito un castello “autoportante” degli equivoci anche una lettera che un carcerato aveva scritto alla trasmissione condotta da Tortora: la redazione riceveva circa duemila lettere al giorno. Il detenuto aveva spedito una serie di centrini fatti a mano con la speranza che potessero essere venduti in trasmissione; questi manufatti vennero dispersi e dopo una serie di lamentazioni epistolari la trasmissione propose un risarcimento per la perdita del pacco. Questo carteggio nella visione ad imbuto degli inquirenti diventa un segno tangibile della compromissione di Tortora: i centrini all’uncinetto diventano linguaggio in codice per intendere gli stupefacenti e il debito reclamato diventa quello che il presentatore dovrebbe a seguito di una partita di droga sottratta all’organizzazione criminale di cui avrebbe fatto parte. Lo stesso detenuto confermerà che l’oggetto delle missive erano centrini e non altro, ma i magistrati ormai innamorati della loro tesi non solo non prendono in considerazione queste affermazioni, ma asseriranno che l’autore delle lettere sia un altro detenuto omonimo rispetto al dichiarante. Il 17 settembre del 1985 Tortora viene condannato a 10 anni di carcere e a cinquanta milioni di lire di multa. Il 15 settembre 1986 Enzo Tortora viene assolto con formula piena dalla Corte d’appello di Napoli: i giudici smontarono le accuse rivolte dai camorristi, per i quali inizia un processo per calunnia.