Il Padre: il grande assente del secolo e la crisi dell’Auctoritas

“Chi non ha un padre deve inventarsene uno” diceva Friedrich Nietzsche. La figura paterna, per secoli considerata il pilastro dell’educazione e della trasmissione dei valori, sembra oggi svanire nella società contemporanea. Claudio Risé lo ha definito “il grande assente del secolo”, riferendosi non solo alla sua scomparsa fisica – sempre più diffusa nelle famiglie monogenitoriali o nei contesti di separazione conflittuale – ma anche alla perdita della sua funzione simbolica.

Se un tempo il padre rappresentava l’auctoritas, intesa come capacità di guidare e far crescere, oggi questo ruolo sembra vacillare, lasciando i figli privi di un punto di riferimento chiaro. Tuttavia, l’errore più grande sarebbe credere che la sua assenza condanni automaticamente le nuove generazioni all’incertezza e al disorientamento. L’approccio strategico ci insegna che non esistono ruoli fissi e immutabili. Che cosa accade quando un individuo ha il padre è assente, emotivamente o fisicamente? La psicoanalisi ha spesso interpretato questa mancanza come una ferita profonda e difficilmente sanabile. Jacques Lacan, parlando del Nome-del-Padre, lo definisce come l’elemento simbolico che introduce il bambino nel mondo della Legge e della Realtà. Senza questa funzione regolatrice, il bambino rischia di rimanere prigioniero di una fusione simbiotica con la madre, senza sviluppare una propria autonomia psichica. Al contempo, l’approccio strategico ritiene che l’assenza del padre, se da un lato può creare difficoltà, dall’altro può anche diventare un’occasione di crescita e trasformazione. La chiave sta nella capacità dell’individuo di costruire nuovi modelli di riferimento e, soprattutto, di imparare a diventare guida di sé stesso.

Tradizionalmente, il padre era il simbolo dell’autorità e del limite. Dal latino augere (“far crescere”), l’auctoritas paterna non si riduceva all’imposizione di regole rigide, ma rappresentava la capacità di offrire un modello solido e coerente. Tuttavia, nella società odierna, sempre più caratterizzata da relazioni orizzontali e modelli educativi permissivi, questa funzione sembra essersi fortemente indebolita. La crisi della figura paterna non è solo un fenomeno familiare, ma anche culturale. Nelle società tradizionali, il padre era colui che introduceva il figlio nel mondo delle regole e della responsabilità, fungendo da ponte tra l’infanzia e l’età adulta. Oggi, invece, molti padri si trovano in difficoltà nel bilanciare affettività e autorevolezza, finendo per assumere un ruolo più simile a quello di un amico che di una guida.

Ma essere padre significa qualcosa di più che condividere momenti piacevoli con i figli. Significa insegnare a gestire la frustrazione, a riconoscere i propri limiti e a trasformare gli ostacoli in opportunità di crescita. Un padre che non sa dire no, per paura di apparire distante o severo, non sta realmente proteggendo il figlio: lo sta privando di strumenti essenziali per affrontare la vita. Lo psicoanalista Alexander Mitscherlich parlava di società senza padre, riferendosi a una civiltà in cui il declino dell’autorità paterna ha lasciato un vuoto che le nuove generazioni faticano a colmare. Questo non significa che dobbiamo tornare a modelli autoritari del passato, ma che dobbiamo riscoprire il valore di una guida sicura, capace di accompagnare i figli verso l’autonomia senza per questo soffocarli.

“Ciò che non mi uccide mi rende più forte” suggeriva Friedrich Nietzsche. La psicoanalisi ha spesso considerato l’assenza paterna come una ferita insanabile, capace di determinare in modo irrevocabile il destino psicologico dell’individuo. Tuttavia, l’approccio strategico ci insegna che il comportamento umano è sempre modificabile, e che ogni mancanza può essere trasformata in una risorsa. Il vero problema, quindi, non è tanto l’assenza fisica del padre, quanto la mancanza di figure di riferimento nella società. Se un bambino cresce senza una guida paterna, può comunque trovare modelli alternativi in insegnanti, mentori, educatori o in adulti significativi che gli forniscano un orientamento. Ancora più importante, può sviluppare la capacità di diventare guida di sé stesso. Molte persone che hanno vissuto situazioni familiari difficili sono riuscite a trasformare il dolore in forza, le lacrime in perle. Viktor Frankl, sopravvissuto ai campi di concentramento, scrive in Uno psicologo nei lager: “L’uomo può essere privato di tutto, tranne che di una cosa: l’ultima delle libertà umane, la scelta del proprio atteggiamento di fronte a qualsiasi circostanza.” Questa è la vera lezione strategica: la possibilità di trasformare la sofferenza in crescita, il dolore in resilienza.

Chi non ha avuto la fortuna di avere una figura paterna stabile può costruire la propria guida interiore, imparando a trarre forza dalle difficoltà. Come scriveva Seneca: “Non è perché le cose sono difficili che non osiamo, è perché non osiamo che sono difficili.” Se è vero che ogni individuo può diventare guida di sé stesso, è altrettanto vero che la società ha il dovere di fornire modelli di riferimento solidi. La crisi del padre è anche la crisi di una cultura che fatica a proporre figure autorevoli, capaci di ispirare e orientare i giovani. Per questo, è fondamentale ricostruire un tessuto educativo basato su modelli di leadership positiva. Questo significa: restituire valore alla funzione paterna, intesa non come dominio, ma come guida responsabile; sostenere l’educazione al limite e alla responsabilità, per evitare che l’assenza di confini generi insicurezza; insegnare l’autonomia e la capacità di affrontare le emozioni negative, affinché ogni individuo impari a trasformare il proprio dolore in crescita. Ogni individuo, indipendentemente dal proprio passato, ha il potere di trasformare la propria vita, scegliendo di crescere, di evolversi e di diventare un punto di riferimento per sé stesso e per gli altri. Perché, in fondo, come diceva Marco Aurelio: “Il nostro destino non è scritto, ma si scrive con le nostre azioni.”

JG

Articolo pubblicato su SienaNews

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